Posts Tagged ‘brandy italiano

23
Apr
18

Al Vinitaly 2018, girando tra il Salone Internazionale dei Distillati

Se andate al Salone Internazionale dei Distillati (chiamatelo pure Vinitaly) non troverete né un padiglione né un settore dedicato che ospita i vari produttori di alcolici. Superare le logiche regionali, e ritagliare uno spazio (come si fa già per Vivit e FIVI) in cui mettere in luce i distillatori italiani ed i rari ospiti stranieri più qualche azienda distributrice potrebbe essere una buona idea, ed una vetrina non trascurabile per le produzioni ad alto grado italiane, che riscuotono spesso più successo all’estero che in casa.

La ricerca della buona bottiglia, va da sé, non è impresa facile: bisogna prima studiare le mappe, con un lavoro preparatorio da caccia al tesoro, poi navigare tra un oceano di produttori di vinelli, vinoni e vinacci, e infine snidarla in mezzo ad un mare di altri liquori: la maggior parte dei produttori di alcolici si dedica anche o soprattutto alla liquoristica, che ha più facilità di commercio e più attrattiva presso il pubblico generale; purtroppo anche in questa nobile arte, in cui gli italiani sono stati creatori originalissimi, e ancora oggi primeggiano, il livello è sceso piuttosto in basso. In un mercato dai mille attori il prezzo finisce per vincere sulla qualità delle proposte, quando

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pure ci sarebbe più di qualche azienda artigiana di cui andare fieri: anche questa branca fa parte dell’eccellenza gastronomica del made in Italy, e nel mondo ce la invidiano tutti quelli che appena ne capiscono di qualità.

Non potevo però fare a meno di andare a cercare tra i distributori qualche maison di cognac che ancora non ho visitato personalmente; sono tantissime, sapete. E se di cognac ne girano pochi sull’Adige, con pazienza qualcosa si trova. Compagnia dei Caraibi distribuisce l’ampia gamma di Cognac Ferrand: mi hanno fatto assaggiare un paio di brandy pensati per la mixology, non privi di personalità: “Renegade Barrel”, un giovane cognac con finishing in botti di castagno (che per questo legalmente perde il diritto alla denominazione cognac, e può solo chiamarsi eau-de-vie de vin), e il

“1840 Original Formula”, che vuole replicare il gusto floreale dell’epoca d’oro del cognac, i decenni centrali del 1800. Drouet & Fils, distribuita da Pellegrini, è una piccola maison familiare con vigneti nei primi due crus, che ci propone l’ultimo nato di casa, un gustoso Grande Champagne a 42° di 7 anni, dal naso elegante, aggraziato al palato, chiamato cognac Melina.

Il brandy italiano non vede molti produttori, oggidì: un nome storico, Carpenè Malvolti, lo distillava un tempo, ma ora ne affina soltanto. Tre sono le qualità offerte in vendita: il “Riserva 7 anni”, focoso ed un po’ dolce, rende nei cocktail ma si lascia bere anche dai non esperti, mentre il “Riserva 15 anni” vuole offrirsi a chi ha maggiori pretese. L’affinamento è ben condotto, ed i brandy sono onesti, più della media nazionale. Faccio un salto da Pojer & Sandri, per salutare l’amico Mario, e pur non avendolo chiesto, ho già il bicchiere in mano: questo funambolo dell’alambicco mi stupisce come al solito! In anteprima in fiera si versa il loro brandy “30 anni”: l’aria di montagna rende fine questa acquavite che danza fiera nel calice eppure conserva una grazia giovanile tutta sua. Bicchiere importante, certo, ma che può essere avvicinato anche dal neofita in tutta facilità.

Ospite internazionale del Vinitaly quest’anno è il Perù, che promuove il suo ardente pisco, non più uno sconosciuto nemmeno da noi: solito piacione il Pisco Portón (Hacienda La Caravedo), già arrivato da tempo nei bar italiani; sincero e molto profumato, senza cedere a morbidezze, il Pisco Legado (Fundo La Esperanza), nella più tradizionale delle sue versioni, distillato da uva quebranta coltivata nella Valle de Mala. Singolare il bruno Inkamaca: è una creazione recente oppure una ripresa di un’usanza popolare? Si tratta di un’infusione della radice della maca andina nel pisco “mosto verde” che produce un amaro tonico dai sapori assai curiosi, con note torrefatte. Vi suggerisco di tenere d’occhio l’acquavite peruviana, c’è ancora molto da scoprire in questa terra ricca di più di 3000 distillerie: il pisco vale davvero un Perù, e farà strada non solo nei vostri cocktail.

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Le sorelle Nonino col padre Benito in distilleria – (dal sito aziendale)

 

La grappa soffre purtroppo di opacità: il nostro distillato bandiera soggiace ancora oggi in patria ad un pregiudizio di mediocrità, e nulla fanno gli attori principali della filiera – le industrie – per risollevarne l’immagine investendo in qualità e trasparenza. E potrebbero, invece di ricorrere a materie prime modeste, a zuccheraggi spinti (peraltro permessi da un disciplinare ambiguo) e ad aromatizzazioni degne di rum dozzinali.

Ma chi tenta di alzare una scomoda voce contro il deplorevole stato di un distillato sì di umile origine, ma che lavorato con arte può competere con i più blasonati fratelli d’oltralpe, viene zittito: vendere conta più di distillare bene. Io non mi stanco, ed è solo per amore della grappa ben fatta.

Il distillato di vinaccia può riservare quindi facilmente cattive sorprese al cliente impreparato ed ignorante, senza sua colpa. Ma buona ed anche ottima grappa se ne trova sempre, a ben cercarla. Prima di tutto dagli artigiani distillatori in proprio.

grappazeroinfinito

Una piacevole conversazione durante la rassegna con la battagliera Antonella Nonino mi ha però rinfrancato parecchio. L’azienda che più di tutte tiene alto il buon nome dell’italica grappa nel mondo la pensa esattamente come me in tema di qualità e trasparenza. Quindi dai Nonino cadrete sempre in piedi: e lo capirete già assaggiando la loro grappa più semplice.

Non disdegnate però i veneti: i fratelli Brunello, distillatori di tradizione quasi bicentenaria in Montegalda, producono belle acquaviti del loro territorio e di altre origini, tra cui una rara “grappa di carmènere” dei colli Berici. Ma se cercate il colpo di fulmine del Vinitaly, i vulcanici trentini di Pojer & Sandri (ebbene sì, ancora loro) ve lo daranno con la loro “grappa Zero Infinito”, ricavata da vinacce di un vitigno ibrido e resistente a gelo e malattie, il solaris: il fruttato se ne esce in 3D, e lunghezza e volume nel calice sembrano davvero infiniti; zero trattamenti in vigna, quindi è pure bio. Volete altro? Chapeau, Mario!

© 2018 il farmacista goloso (riproduzione riservata)

16
Mar
15

degustazioni – brandy antinori

Antinori è un’azienda per cui non è necessario spendere parole, tanto è celebre. Un po’ meno nota è la sua produzione di brandy italiano. Di certo non ha grande importanza nella gamma aziendale, se come riferisce il loro sito, “nell’arco di trent’anni il brandy è stato prodotto solamente quattro volte, in quantità molto limitate”. La Casa purtroppo non fornisce  indicazioni supplementari, né lo fa la bottiglia.

Molti anni fa, incontrandolo per la prima volta, questo distillato mi aveva impressionato favorevolmente, per quanto il giudizio fosse frutto di modesta esperienza, e di un gusto personale ancora molto influenzato dalle grandi Case di cognac. A distanza di tempo e di molti bicchieri di acquaviti di vino, posso esprimere un parere solido, benché inevitabilmente soggettivo.

Lo scenografico interno della nuova cantina Antinori - San Casciano Val di Pesa - fonte: sito aziendale Antinori

Lo scenografico interno della nuova cantina Antinori – San Casciano Val di Pesa – fonte: sito Antinori

BRANDY ANTINORI

Denominazione: Brandy Antinori
Produttore: Marchesi Antinori – Firenze
Tipo di produttore: distillatore (?) – affinatore
Cru:
Gradazione: 42°
Invecchiamento: 6 anni

Vitigni: trebbiano toscano
Prezzo : € 35 circa [2014]

Reperibilità: difficile

Note gustative

Colore dorato chiaro; aroma: primo naso chiuso, leggermente boisé, con sentori vinosi comuni a molti brandy italiani; con l’aerazione emergono lievi e dolci note fruttate, l’alcolicità è garbata; gusto zuccheroso marcato, che copre il piacevole frutto; corpo sottile che lascia poca traccia di sé; retrogusto corto; equilibrio corretto per l’età.

Brandy Antinori - dal sito aziendale

Brandy Antinori – dal sito aziendale

Questo brandy non soddisfa il bevitore avvertito, per quanto accontenti dignitosamente un consumatore occasionale; sebbene sia privo di difetti e dia buona prova al naso, lo zuccheraggio ne appiattisce le note piacevoli. Il modesto invecchiamento non aiuta il distillato a strutturarsi compiutamente. Ad un livello di prezzo analogo od anche più basso, qualunque cognac VSOP regala maggiore piacere al palato.

Senza voler mancare di rispetto ad una delle più longeve dinastie di vignaioli al mondo, Antinori potrebbe fare molto meglio con l’alambicco. Abbiamo bisogno di dimostrare al mondo le potenzialità del brandy italiano di qualità, e questa nostra gloriosa azienda possiede ogni necessaria premessa: materia, esperienza, passione, tradizione, nome e mercati. Perché non sviluppare finalmente con amore, cura e dedizione i propri distillati come già si fa da secoli con i propri vini? Che saranno le giuste attenzioni nel distillare, e 15-20 anni di botte nella storia di una Casa plurisecolare? Rimboccatevi le maniche, toscanacci! C’è tanto da fare, e voi siete tra i pochi che potete farlo alla perfezione, se solo voleste.

Scheda di degustazione

Aroma
1. Fruttato / vinosità:  4
2. Aroma di legno (quercia):  2
3. Alcolicità:  3                  (1= prevalente) (6= minima)

Gusto
1. Astringenza:                (1= prevalente) (6= minima)
2. Dolcezza:  3
3. Rancio:  1
4. Ricchezza:  3
5. Corpo (pienezza):  2

Retrogusto (lunghezza):  2

Equilibrio aroma/gusto:  3

Giudizio complessivo:                                26 / 60

Voti: 1= assente 2= scarso 3= mediocre 4= buono 5= molto buono 6= ottimo

© 2015 il farmacista goloso (riproduzione riservata)

20
Mag
14

degustazioni – brandy villa zarri 16 anni

Villa Zarri è un produttore di brandy italiano di qualità, con sede a Castel Maggiore (Bologna) nelle dipendenze dell’omonima villa settecentesca.

L’azienda, nata sul finire degli anni ’80 per iniziativa del già produttore del brandy Oro Pilla, si caratterizza per distillare artigianalmente, caso forse unico in Italia, con alambicco charentais, e per invecchiare il brandy con lo stesso metodo e le stesse cure impiegate nella zona di produzione del cognac.

VILLA-ZARRI

Da sinistra a destra, un brandy Villa Zarri, l’alambicco charentais dell’azienda, ed il patron Guido Fini Zarri.
(dal sito aziendale)

I brandy prodotti da Villa Zarri sono confrontabili con i cognac d’oltralpe, di cui condividono tutto meno il terroir;  il vitigno utilizzato è il trebbiano tosco-romagnolo di collina, per un risultato simile ai francesi in termini di gusto, ed il distillato invecchia in botti di quercia del Limousin e dell’Allier, in clima umido. Potremmo quindi permetterci di chiamarli in tutta onestà cognac italiani, se non lo vietasse la tutela della denominazione d’origine francese.

Il  distillatore, Guido Fini Zarri, è un figlio d’arte, nato e cresciuto tra gli alambicchi dell’industria paterna: aveva ben chiara la possibilità di produrre brandy di qualità anche in Italia, purché lo si fosse voluto. Nonostante i suoi sforzi in questo senso, nessuno dei produttori storici di brandy italiani ha inteso raccogliere quella che è stata una sfida all’indiscusso primato transalpino, per il timore dei costi, dei tempi lunghi, di un mercato debole, e soprattutto per dover acquisire in pochi anni un’esperienza che per i francesi è patrimonio plurisecolare. Insomma, una pazzia, o per meglio dire, una visione.

È riuscita questa sfida? Lo scopriremo in questa degustazione.

 BRANDY ITALIANO VILLA ZARRI 16 ANNI

Denominazione: Assemblaggio Tradizionale – 16 anni

Produttore: Villa Zarri – Castel Maggiore (Bologna)

Tipo di produttore: distillatore  – affinatore

Cru: –

Qualità: assemblaggio (annate 1987-1988-1989)

Gradazione: 44°

Invecchiamento: 16 anni (imbott. 2006)

Vitigni: trebbiano toscano e romagnolo

Prezzo: € 50 – 55 (50 cl / 2014)

Note gustative

Colore ramato; aroma: primo naso incerto e leggermente boisé, con note vinose; col riposo si apre ad un piacevole vanigliato, e gli aromi vinosi diventano dominanti sul legno; alcolicità minima; gusto armonico, morbido, pieno e generosamente vinoso, perfettamente fuso con il legno dolce della quercia, che gioca in eleganza; l’alcool è molto ben integrato; retrogusto discretamente persistente con residuo tanninico sul palato;  equilibrio eccellente tra aroma e gusto.

Questo distillato è il prodotto di un sogno, fare brandy in Italia allo stesso livello dei vignaioli di Cognac. Il risultato è ammirevole; tuttavia il confronto col cognac non è facile: pur nel rispetto del metodo produttivo, clima e terreno sono profondamente diversi, ed inutile risulta tentare di inquadrare questo distillato pensando ai crus della Charente, un po’ come fareste per champagne e bollicine nostrane.

Volendo schematizzare, questo brandy Villa Zarri ha più ‘polpa’ ed intensità, più ampiezza aromatica ma minore finezza di un cognac di simile invecchiamento, ed un retrogusto meno etereo. Si può in ogni caso definire come un brandy assai elegante, generoso, e di perfetto equilibrio, senza complessi di inferiorità rispetto ai migliori cognac. L’etichetta è pienamente informativa ed esauriente, ed un ulteriore pregio è la non eccessiva riduzione del grado alcolico, mantenuto oltre 40°, che dona carattere al brandy.

Bravò, monsieur Finì !

Avviso: il brandy degustato è un gentile omaggio del distillatore, che ringrazio ancora, in occasione di una visita all’azienda. Valuti il lettore l’indipendenza della recensione.

Scheda di degustazione

Aroma                                     

1.  Fruttato / vinosità: 5

2.  Aroma di legno (quercia): 4

3.  Alcolicità: 6             (1= prevalente)      (6= minima)

Gusto

1.  Astringenza: 3             (1= prevalente)       (6= minima)

2.  Dolcezza: 5

3.  Rancio: 1

4.  Ricchezza: 5

5.  Corpo (pienezza): 3

Retrogusto   (lunghezza): 4

Equilibrio aroma/gusto: 6

Giudizio complessivo                       42 / 60

 

Voti: 1= assente 2= scarso 3= mediocre 4= buono 5= molto buono 6= ottimo

 

© 2014 il farmacista goloso (riproduzione riservata)

22
Feb
14

il brandy italiano – oggi

Esaurite le ‘vacche grasse’ alla fine degli anni 1970, le aziende produttrici di brandy che erano sopravvissute alla guerra o che erano nate negli anni del boom economico si trovarono ad un bivio: diversificare, o soccombere. Molte chiusero i battenti, altre, le più grandi, si adattarono al mercato in declino, inseguendo altri trend. La strada della qualità, che impone investimenti di lungo termine per ottenere risultati, non venne percorsa che da rarissimi imprenditori. Non che non si potesse produrre brandy di ottima fattura in Italia, anzi: le premesse c’erano tutte, ma richiedevano uno sforzo, e probabilmente la visione di un mercato piccolo e declinante dissuase la gran parte di loro. Non ci fu la percezione di una possibile espansione del mercato all’estero proponendo distillati migliori, anche a causa della mancanza di spirito di gruppo del sistema italiano; che al contrario, è una delle forze trainanti francesi.

Il più diffuso brandy italiano – Vecchia Romagna Buton – Ditta Montenegro, Bologna

Ma vediamo cosa è in concreto oggi il brandy italiano secondo la legge: un distillato di vino nazionale, quindi non da sottoprodotti, che deve avere un grado minimo al consumo di 38°, e un invecchiamento in botte di legno di quercia di almeno un anno, o sei mesi se in botte minore di 10 hl, sotto controllo fiscale. A differenza della Francia, non è disciplinato né un territorio di produzione, né il metodo di distillazione, che può essere a colonna o in alambicco a caldaia, né di uno specifico invecchiamento. Sono ammesse le consuete aggiunte di zucchero, caramello e boisé (maquillage) ed il taglio con altri distillati di vino nazionali.

Come si vede quindi non si tratta che di un prodotto dai requisiti minimi per potersi chiamare brandy, un distillato di vino invecchiato brevemente in botte, e che basa le sue caratteristiche più sull’impiego degli additivi aromatizzanti, che sulle sue doti intrinseche: in definitiva un prodotto alquanto mediocre e senza tipicità alcuna, se non l’origine nazionale. Un po’ poco per fare qualità.

Le cause della incapacità italiana di produrre distillati di livello superiore sono essenzialmente ascrivibili alla mancanza di una zona di produzione definita, all’assenza di una tradizione artigianale, come esiste in Francia nei grandi distretti Cognac ed Armagnac, e parzialmente anche in Spagna a Jerez, ad un’industria orientata al profitto immediato e non coordinata tra gli operatori della filiera, ed a politiche fiscali nazionali e comunitarie che incentivano la trasformazione del vino in alcool.

Un moderno (2011) alambicco a colonna – Crysopea – distillazione discontinua a frazionamento sottovuoto – Ditta Poli Distillerie- Schiavon

La struttura produttiva attuale si compone di alcune aziende maggiori, che operano prevalentemente con la grande distribuzione, e di fabbricanti medio-piccoli di spiriti vari che lavorano fra le altre cose anche distillati di vino. Oggigiorno la distillazione di vino in proprio è effettuata da pochi soggetti, chi grande industria e chi artigiano; tra questi due estremi sta la maggior parte del brandy italiano in commercio,  prodotta da grandi distillerie industriali che poi viene venduta alle aziende affinatrici, le quali ne curano l’invecchiamento e l’imbottigliamento. La differenza con il cognac è evidente.

I grandi attori sul mercato sono ancora oggi alcune delle aziende che hanno fatto la storia dell’industria italiana dei distillati, pur nel rimescolamento delle proprietà dei marchi di fabbrica: pensiamo al gruppo Montenegro (Vecchia Romagna) con in mano circa un terzo del venduto nazionale del brandy, a Stock (84), a Branca (stravecchio), ed a qualche distilleria minore; tutti accomunati dal canale grande distribuzione e da una qualità ordinaria. L’uso corrente di questi alcolici oggigiorno è più la correzione del caffè al bar che non il consumo tal quale, ormai sporadico. Alcune di loro commercializzano piccole riserve destinate alla degustazione.

Tradizionale alambicco charentais per la distillazione discontinua del brandy – Ditta Villa Zarri – Castel Maggiore

L’altra faccia della produzione consiste nell’industria liquoristica minore, in particolare nei distillatori di grappa, che talvolta hanno in portafoglio oltre a numerosi spiriti anche uno o due brandy. Qui la tipologia di prodotto varia notevolmente da azienda ad azienda, dalle qualità in tutto simili ai prodotti mass-market fino a riserve pregiate lavorate secondo standard superiori, per la gioia dell’amatore di distillati. Non essendoci un disciplinare se non la norma vista poc’anzi, ogni ditta si comporta secondo la propria politica commerciale: avremo perciò una grossa parte d’aziende le quali affinano distillato di origine industriale, ed un gruppo sparuto di distillatori in proprio; cosa stia bevendo, il consumatore lo ignora quasi sempre anche per la mancanza di dichiarazioni in etichetta.

Le zone che contano la maggiore presenza di aziende sono le più vocate alla viticoltura: il Piemonte, la Sicilia, l’Emilia Romagna, il Trentino, ed il Veneto. Spesso si tratta di commercio a piccoli volumi, con limitata presenza nelle enoteche e nei bar, talvolta solo nella regione del produttore. Il panorama perciò è quanto mai variegato, e risulta difficile al consumatore orientarsi in una selva di bottiglie senza apparenti differenze di qualità. A volte dietro ad un marchio (facilmente altisonante) non c’è nemmeno un produttore od affinatore, ma solo un’azienda commerciale, cosa comune anche nel mondo cognac.

Qualche azienda tra molte, per farsi un’idea del brandy italiano lavorato artigianalmente o quasi: Antinori, storico nome toscano (6 anni); Berta, grossa distilleria piemontese, con due etichette (20 e 25 anni); Giori, azienda trentina, con due distillati di 25 anni; Mazzetti, grappaiolo piemontese, con tre qualità invecchiate; Pojer & Sandri, vignaioli trentini, con un originale brandy da vigneti di proprietà (10 anni); Poli, celebre grappaiolo veneto, con due varietà, brandy (3 anni) ed arzente (10 anni); Villa Zarri, bolognese, unica distilleria italiana a produrre con la stessa tecnica del cognac (10 anni, e qualità millesimate più mature). Quasi tutti distillano col metodo a ripasso, in caldaia a bagnomaria (alambicco Zadra o derivati), Villa Zarri solamente con l’alambicco tradizionale charentais a fuoco diretto.

La forchetta di prezzo nei brandy italiani è ampia, partendo da circa 5-6 euro per i prodotti più dozzinali, fino a circa 80 euro (70 cl) per le qualità di pregio lungamente invecchiate: a questo livello il costo è allineato ai cognac di età corrispondente (XO).

È arduo capire dall’etichetta cosa si sta versando nel bicchiere, data la grande disomogeneità produttiva dei distillati italiani: a parte l’invecchiamento, raramente vengono fornite indicazioni che potrebbero orientare un consumatore evoluto. Come per il cognac, è preferibile orientarsi sulle aziende che distillano ed invecchiano in proprio e che forniscono informazioni esaurienti sui loro brandy; non lasciatevi ingannare dall’aspetto cupo, che è dato dal caramello aggiunto. È utile ribadire che l’indice più affidabile della qualità di un brandy non è la sua età, ma l’equilibrio tra aroma e gusto del distillato.

Se vi interessa una breve storia del brandy italiano cliccate QUI.

© 2014 il farmacista goloso (riproduzione riservata)

20
Nov
13

il brandy italiano – storia

Il brandy italiano è il distillato di vino nazionale invecchiato in botte di legno. Si produce da vino bianco, prevalentemente della varietà trebbiano, abbondantemente coltivato in tutte le regioni o da altri vini a sapore neutro e spiccata acidità.

Cognac Enotrio - Ramazzotti - Milano - anni 1930

Cognac Enotrio – Ramazzotti – Milano – anni 1930

L’origine della distillazione del vino in Italia è incerta: nessuno da noi si sognava di trasformarlo, essendo alimento primario la cui produzione veniva consumata tal quale. Il nostro distillato tradizionale, la grappa, è un sottoprodotto che non incide sulla bevanda madre.

La pratica era tuttavia conosciuta già ai tempi della Scuola Salernitana, ma è rimasta confinata nei laboratori alchemici o dei monasteri per lunghi secoli, senza dare origine ad una diffusa attività artigianale. L’impulso alla distillazione su scala commerciale nascerà, un buon paio di secoli dopo altre nazioni, ad opera di imprenditori stranieri.

Pare che il primo a far distillare il vino, sul finire del 1700, fosse in Sicilia John Woodhouse, il creatore del marsala così come lo conosciamo oggi, per fortificare il prodotto e trasportarlo in patria, secondo l’uso del vino di Oporto. Seguirono poi altri industriali inglesi, Ingham e Whitaker, ma sempre con lo stesso scopo. Il primo distillatore a impiantare in Italia un’azienda dedicata al brandy fu Jean Bouton intorno al 1830, che guarda caso proveniva dalla regione di Cognac, con tutto il bagaglio di esperienza tradizionale della zona. Si installò a Bologna, dove poteva rifornirsi facilmente di vino trebbiano adatto alla distillazione. E’ da notare come questa città sia stata la culla del brandy nostrano, e tuttora un vivace centro di produzione.

Pubblicità cognac Buton - Bologna - 1925

Pubblicità cognac Buton – Bologna – 1925

L’inizio di un’industria vera e propria del brandy italiano, poiché le produzioni a carattere familiare contadino (simile ai boilleurs de cru) o di piccole distillerie artigianali non ci sono mai state, per le ragioni dette prima, vuoi soprattutto per la mancanza di zone viticole specializzate, come invece si trovano in Francia e pure in Spagna (Jerez), va fatta risalire al tardo Ottocento, quando la fillossera stava decimando la viticoltura transalpina. Allora, sfruttando la grave carenza produttiva francese, nacquero da noi svariate aziende che avevano accesso ad uve idonee alla distillazione per inserirsi nel già vivace commercio d’esportazione del cognac.

Che di questa carenza gli italiani ne approfittassero, è cosa nota: al tempo non erano previste restrizioni, e ogni distillato di vino poteva essere legittimamente chiamato cognac, così le distillerie di mezzo mondo invasero i mercati assetati d’America e del Nord Europa; i francesi, appena ripresisi dal disastro vinicolo, reagirono con le leggi di delimitazione della zona di produzione, e terminate le due guerre mondiali, con un’energica azione governativa a tutela del nome cognac. Alla fine degli anni 1940 risalgono numerosi trattati internazionali volti ad impedire alle nazioni produttrici di distillati di vino l’uso della denominazione di origine cognac. Con l’Italia un trattato del genere venne stipulato nel 1948 con efficacia per l’anno successivo: da allora non è più consentito chiamare il distillato di vino italiano cognac, ma solo brandy.

Brandy Stock - Trieste - 1900 circa - ill. Dudovich

stampa brandy Stock (post 1949) – Trieste – ill. Dudovich 1900 circa

La parola brandy identifica da secoli in Inghilterra il cognac, conosciuto dal tardo 1600 come Conyack brandy. La derivazione si suppone sia dall’olandese brandwijn (gli Olandesi furono i primi mercanti ed i perfezionatori della distillazione moderna) cioè vino bruciato, che descrive la pratica.

Ora brandy è impiegato universalmente ad indicare il distillato di vino, benché l’archetipo nel linguaggio comune rimanga cognac, col quale si identifica immediatamente questo genere di prodotti. Da noi è mancata una parola italiana, per l’impiego dapprima del termine francese, e in seguito per il fallimento dell’esperimento di introdurne una al tempo del fascismo, quando si doveva italianizzare tutto. Ci provò D’Annunzio coniando la parola arzente (corruzione di acqua ardente?) ma non ebbe fortuna, data la notorietà universale del termine cognac. Curiosamente nella regione di Cognac il distillato è chiamato semplicemente eau-de-vie (acquavite).

Nessuna delle industrie che posero le basi della produzione nazionale di brandy fu in controllo della filiera, né acquistava brandy già prodotto dal contadino come in Francia; erano distillerie che reperivano il vino localmente e lo trasformavano, poi invecchiandolo. Se lavoravano bene, usavano la botte di quercia e l’alambicco a ripasso, e per non troppo tempo, 3 anni era già considerato un invecchiamento superiore. Paradigmatico è l’esempio del fondatore della Stock, Lionello, che aveva visto nell’abbondanza di vino dei dintorni di Trieste e di rovere della vicina Slavonia, sua terra di origine, la sintesi per una nuova industria (allora austro-ungarica, 1884).

Etichetta cognac Carpené Malvolti - Conegliano

Etichetta cognac Carpené Malvolti – Conegliano

Gli anni sul finire del 1800 videro l’arrivo di altri francesi, Landy e René Briand, per citarne i più noti, e l’inizio della produzione ad opera di industriali italiani, primo tra tutti Florio a Marsala nel 1885, subentrato agli inglesi, che aveva già il know-how e la materia prima.

Tra la fine del secolo e gli anni ’30 del 1900 poi, chiunque avesse un’attività di distillazione o di liquoreria si diede alla produzione domestica di cognac, dato il vivace consumo dell’epoca. Tra i marchi più diffusi, alcuni ancora sopravvissuti al nostro tempo, vengono a mente Stravecchio Branca (1892), Oro Pilla, Carpené, Martini & Rossi, Vecchia Romagna (1939 / Buton), Sarti, Ramazzotti, Gambarotta. Molti altri produttori minori, vivaci tra le due guerre, non sopravvissero per le piccole dimensioni, ma lasciarono una elegante pubblicistica, anche ad opera di celebri illustratori (pensiamo a Cappiello e Dudovich tra tutti), che è ricercata ancora oggi dai collezionisti.

Pubblicità del cognac Sarti - Bologna - 1920 circa

Pubblicità del cognac Sarti – Bologna – 1920 circa

Il declino si presentò amaro e in tutta la sua portata dopo la metà degli anni 1970, quando i gusti dei consumatori (non si sa se il cambiamento fu imposto o meno dalle nascenti multinazionali del beverage) si orientarono verso il trionfante whisky e gli spiriti chiari (provocando tra le altre cose la rinascita della grappa, come distillato nobile) e più tardi verso il meno conosciuto rum caraibico.

I fattori per cui l’industria italiana è decaduta a livelli meno che mediocri, perché bisogna ammettere che non fu sempre così in passato quando produceva pure brandy bevibilissimi, sono dovuti oltre che al cambiamento dei gusti e quindi al crollo della domanda, anche alla debolezza della struttura produttiva, che non ha mai saputo darsi delle regole di qualità o pensare di crearsi una nicchia di eccellenza, preferendo galleggiare nel mass market, a base di grandi numeri, e investimenti scarsi o nulli. Gli spagnoli hanno fatto meglio di noi.

In questo articolo trovate la realtà (in parte più felice) del brandy italiano di oggi.

© 2013 il farmacista goloso (riproduzione riservata)




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