Riprendiamo un tema vivacemente dibattuto su altri blog dagli appassionati di spiriti.
Lo zucchero aggiunto ai distillati fa parte degli usi leali e costanti, come direbbero i francesi, della manifattura di quasi tutte le bevande alcoliche.
La polemica è sorta dopo che un appassionato danese, Johhny Drejer, si è messo ad analizzare con criteri di laboratorio chimico alcuni dei più conosciuti rum premium, e ne sono emersi dati inquietanti: in sintesi un iper-zuccheraggio generalizzato, tanto più elevato quanto più il prodotto è invecchiato. I monopoli statali degli alcolici norvegese e finlandese nelle schede dei singoli prodotti forniscono dati simili, di cui è difficile dubitare la malafede.Qui i dati riassunti in tabella (dal suo sito http://www.drecon.dk)
Se la pratica sia ammissibile nei rum, lo lasciamo valutare agli specialisti dello spirito caraibico: qui riportiamo da un blog inglese un’intervista con un produttore critico.
Approfondiremo in un prossimo articolo i contenuti in zuccheri del cognac e dei brandy, che sono regolati da disciplinari di produzione. Sarà interessante ficcarci il naso.

Bottiglie di rum – varia origine – CC license – author Arnaud 25
Ma quello che è sconcertante sono le reazioni a queste “scoperte” da parte dei produttori di rum, ai quali è stato comunicato il risultato delle analisi sui loro distillati. Sempre, ostinatamente essi negano l’evidenza dello zuccheraggio, e si attaccano ai vetri, pardon, alla botte. Perché?
Semplicemente perché li si è presi “con le mani nel sacco”. Lo zuccheraggio degli spiriti è permesso solo come edulcorante per arrotondare il sapore [norma UE] e finché si mantiene entro limiti ragionevoli. Ma allora come mai questi risultati di analisi? La UE non ha definito tali limiti, ed singoli stati membri non lo fanno se non per i distillati di origine nazionale. Cosicché non c’è una regola vincolante valida per i distillati delle Banana Republics, e ovviamente i produttori fanno come più gli aggrada (e conviene). Anche se secondo le norme Comunitarie [Regolamento CE 110/2008] questi distillati non potrebbero legalmente essere chiamati rum per mancanza dei requisiti di legge.
Tuttavia, quando questo limite (onesto se tra 5 e 15 g/litro, nella maggior parte degli spiriti) viene superato, non ci sono giustificazioni alla pratica, se non di rendere l’acquavite apparentemente più invecchiata e più gradevole di quel che è in realtà. Nel linguaggio della chimica analitica tale aggiunta si chiama adulterazione [alimento scadente offerto come alimento pregiato], e non più edulcorazione [correzione del sapore con zuccheri]. Cioè si tratta della manipolazione della realtà.

Densimetro digitale da laboratorio
Quindi se i rum sono in massima parte adulterati con generosissimi zuccheraggi (spesso oltre i 40 g/litro), il significato è che il prodotto che esce dagli alambicchi caraibici non è potabile, e non lo è nemmeno dopo invecchiamento (se no lo zucchero non verrebbe usato), o almeno così lo percepisce il grande pubblico. Scadente materia prima ? Fretta di vendere ? Voglia di arrivare alla platea più ampia possibile e non solo al bevitore sofisticato ? Chissà.
Di fatto si fa credere al consumatore che il rum ‘X’ sia quello che non è: morbido, piacevole, maturo, dagli aromi brillanti. Invece quasi sempre è un prodotto artefatto, probabilmente molto meno invecchiato di quanto pretenda di essere, colorato generosamente col caramello, talora artificiosamente aromatizzato con i metodi più vari, naturali o di sintesi che siano (pratica altresì vietata per i distillati, ma badate bene, non per i liquori), e in genere stucchevole grazie all’aggiunta massiccia di zuccheri. Questo vogliono i grandi produttori, e così formano il gusto del consumatore medio su prodotti industriali “costruiti” a tavolino, mediocri all’origine e di fatto adulterati. Peraltro piuttosto costosi. La differenza con un armagnac tradizionale è impressionante.

Alcolometro tradizionale (di Gay-Lussac) – CC license – author Sémhur
Un enorme problema di credibilità e di trasparenza per il rum, non c’è dubbio, in cui ci vanno di mezzo i bevitori (ignari) ed i produttori (scrupolosi). Ma anche la chiave del successo di un distillato che ha avuto una fulminante diffusione presso i consumatori giovani di mezzo mondo. Chi non conosce e forse ingenuamente giura sulla famosa bottiglia impagliata dall’etichetta a doppia cifra, o su altre isole del tesoro in bottiglia ? Occhio ai pirati però !
Mi spiace per gli amici appassionati, ma in tutta sincerità, non sono mai stato innamorato dei rum, con rare eccezioni. Ci ho sempre trovato quello che oggi le analisi mettono in luce, distillati poveri di corpo e di anima. Non era solo una mia snobbery o pregiudizio, da quel che leggiamo.
La conclusione ? Meglio ricredersi e puntare su brown spirits meno facili da accostare alle labbra ma più onesti verso il bevitore.
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