Cosa sarà mai, vi chiederete? Eppure se andate negli States è già un paio di anni che il singani fa furore come nuova intrigante base per i cocktail e non solo.
Ecco svelato il mistero: il singani altro non è che la versione boliviana del più noto pisco prodotto in Perù. Si ottiene però dalla sola uva Moscato di Alessandria, conosciuta da noi come zibibbo, e raramente da uve Mollar, coltivate da 1.600 a 3.000 metri di altezza nelle province meridionali di Chuquisaca e Tarija.

Francobolli di viticoltura eroica in un’aspra valle boliviana.
Il distillato della Bolivia ha una tradizione plurisecolare, come del resto il suo fratello peruviano. La produzione di uva del paese, esposta al sole andino, è di circa 60/70 quintali per ettaro per un’area vitata complessiva di circa 2.500 ha, poca cosa rispetto ai nostri parametri. Il suo nome pare derivi da una delle prime tenute coltivate a vite del Potosì, gestite dai monaci spagnoli mandati a colonizzare la regione.
Nel Paese di origine il singani si beve raramente puro: più di frequente forma la base di una popolare bibita assieme a succo di limone, gazzosa e un cubetto o due di ghiaccio, che prende il nome di chuflay, all’incirca un pisco sour. I boliviani lo offrono volentieri anche con succo di arancia, ottenendo lo yungueñito.

Chuflay – cocktail boliviano a base di singani

Viticoltura razionale nel distretto di Tarija
La nascita di questo distillato di vino non invecchiato si deve, come del resto per il pisco, agli spagnoli. La coltura dell’uva in Bolivia tuttavia è più difficoltosa che in Perù, per l’altitudine ed il clima meno propizio: dati i risultati incostanti nella produzione di vino, e la cattiva conservazione dello stesso al tempo in cui non esistevano i solfiti, l’esperienza ha orientato i vignaioli alla distillazione.
Il singani si ottiene dalla distillazione in alambicco charentais dei mosti di fresca fermentazione di zibibbo ed altre uve, avendo cura di mantenere la loro temperatura entro i 20°; altrimenti gli aromi tipici del distillato andrebbero persi. Il vino appena ricavato si distilla al più presto, ottenendo un’acquavite bianca notevolmente aromatica, a 70° circa. Dopodiché la gradazione viene subito abbassata a 40° con acqua distillata e il singani è lasciato riposare alcuni mesi in recipienti inerti. In alcuni casi si pratica perfino la doppia distillazione e l’invecchiamento in botti di rovere, cosa non permessa per il pisco.
Se ne classificano tre tipologie:
- il gran singani prodotto in altura col vitigno zibibbo in purezza;
- la primera selección con vini di uve varie;
- la segunda selección ottenuta dalla fermentazione delle vinacce, ancora aromatica ma più simile alla nostra grappa che ad un pisco.
La produzione di singani è stata per secoli affare familiare, ma da una cinquantina d’anni sono stati introdotti miglioramenti tecnici, colturali e varietali per aumentarne la resa e la qualità, così come si è fatto per il vino locale.
La distillazione è in parte industriale, e in parte ancora artigianale, localizzata prevalentemente nella zona di Tarija. La quantità prodotta risente della limitata superficie vitata, e il distillato viene consumato quasi del tutto in Bolivia.

Rudimentale alambicco artigianale in muratura per distillare il singani
Tuttavia il singani sta avendo un successo crescente in USA per l’iniziativa imprenditoriale di un noto produttore cinematografico, Steven Soderbergh, il quale, innamoratosi del distillato durante le riprese di una pellicola su Ernesto Che Guevara, ha preso accordi col maggiore produttore locale per commercializzare in patria col marchio Singani 63 l’acquavite boliviana.

Singani 63, marchio californiano di proprietà del regista Steven Soderbergh
Il singani di qualità è fruttato, floreale, non brucia il palato, ed è un ingrediente versatile in numerosi cocktail. Il suo difetto, mi dicono, è di essere terribilmente gustoso, per cui l’overdose accidentale non è rara. Per ora si trova solo a buon prezzo in Bolivia, ed all’astronomica cifra di $30 la bottiglia in California.
Considerando l’abbondanza di uve aromatiche in Italia, e l’ormai diffusa padronanza dei metodi di vinificazione a temperatura controllata, viene spontaneo pensare all’enorme potenzialità di un prodotto analogo al singani. Il mercato degli spiriti chiari oggi è in mano ai produttori di vodka e gin, e se l’acquavite boliviana nella sua pur piccola realtà produttiva è riuscita a penetrare il grasso mercato USA, immaginatevi quale successo potrebbe avere un distillato dotato di simile versatile bevibilità e made in Italy. Certo, il governo dovrebbe dare una mano aprendo alle norme sulla micro-distillazione, oggi ingessate da una miope burocrazia. Ma sarebbe una grande opportunità per l’utilizzo delle uve aromatiche in eccesso, anche da tavola, e per la tanto sbandierata quanto inesistente crescita occupazionale del Sud. Basta imparare a distillare, il resto l’abbiamo già pronto e di ottima qualità.
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