Se andate al Salone Internazionale dei Distillati (chiamatelo pure Vinitaly) non troverete né un padiglione né un settore dedicato che ospita i vari produttori di alcolici. Superare le logiche regionali, e ritagliare uno spazio (come si fa già per Vivit e FIVI) in cui mettere in luce i distillatori italiani ed i rari ospiti stranieri più qualche azienda distributrice potrebbe essere una buona idea, ed una vetrina non trascurabile per le produzioni ad alto grado italiane, che riscuotono spesso più successo all’estero che in casa.
La ricerca della buona bottiglia, va da sé, non è impresa facile: bisogna prima studiare le mappe, con un lavoro preparatorio da caccia al tesoro, poi navigare tra un oceano di produttori di vinelli, vinoni e vinacci, e infine snidarla in mezzo ad un mare di altri liquori: la maggior parte dei produttori di alcolici si dedica anche o soprattutto alla liquoristica, che ha più facilità di commercio e più attrattiva presso il pubblico generale; purtroppo anche in questa nobile arte, in cui gli italiani sono stati creatori originalissimi, e ancora oggi primeggiano, il livello è sceso piuttosto in basso. In un mercato dai mille attori il prezzo finisce per vincere sulla qualità delle proposte, quando
pure ci sarebbe più di qualche azienda artigiana di cui andare fieri: anche questa branca fa parte dell’eccellenza gastronomica del made in Italy, e nel mondo ce la invidiano tutti quelli che appena ne capiscono di qualità.
Non potevo però fare a meno di andare a cercare tra i distributori qualche maison di cognac che ancora non ho visitato personalmente; sono tantissime, sapete. E se di cognac ne girano pochi sull’Adige, con pazienza qualcosa si trova. Compagnia dei Caraibi distribuisce l’ampia gamma di Cognac Ferrand: mi hanno fatto assaggiare un paio di brandy pensati per la mixology, non privi di personalità: “Renegade Barrel”, un giovane cognac con finishing in botti di castagno (che per questo legalmente perde il diritto alla denominazione cognac, e può solo chiamarsi eau-de-vie de vin), e il
“1840 Original Formula”, che vuole replicare il gusto floreale dell’epoca d’oro del cognac, i decenni centrali del 1800. Drouet & Fils, distribuita da Pellegrini, è una piccola maison familiare con vigneti nei primi due crus, che ci propone l’ultimo nato di casa, un gustoso Grande Champagne a 42° di 7 anni, dal naso elegante, aggraziato al palato, chiamato cognac Melina.
Il brandy italiano non vede molti produttori, oggidì: un nome storico, Carpenè Malvolti, lo distillava un tempo, ma ora ne affina soltanto. Tre sono le qualità offerte in vendita: il “Riserva 7 anni”, focoso ed un po’ dolce, rende nei cocktail ma si lascia bere anche dai non esperti, mentre il “Riserva 15 anni” vuole offrirsi a chi ha maggiori pretese. L’affinamento è ben condotto, ed i brandy sono onesti, più della media nazionale. Faccio un salto da Pojer & Sandri, per salutare l’amico Mario, e pur non avendolo chiesto, ho già il bicchiere in mano: questo funambolo dell’alambicco mi stupisce come al solito! In anteprima in fiera si versa il loro brandy “30 anni”: l’aria di montagna rende fine questa acquavite che danza fiera nel calice eppure conserva una grazia giovanile tutta sua. Bicchiere importante, certo, ma che può essere avvicinato anche dal neofita in tutta facilità.
Ospite internazionale del Vinitaly quest’anno è il Perù, che promuove il suo ardente pisco, non più uno sconosciuto nemmeno da noi: solito piacione il Pisco Portón (Hacienda La Caravedo), già arrivato da tempo nei bar italiani; sincero e molto profumato, senza cedere a morbidezze, il Pisco Legado (Fundo La Esperanza), nella più tradizionale delle sue versioni, distillato da uva quebranta coltivata nella Valle de Mala. Singolare il bruno Inkamaca: è una creazione recente oppure una ripresa di un’usanza popolare? Si tratta di un’infusione della radice della maca andina nel pisco “mosto verde” che produce un amaro tonico dai sapori assai curiosi, con note torrefatte. Vi suggerisco di tenere d’occhio l’acquavite peruviana, c’è ancora molto da scoprire in questa terra ricca di più di 3000 distillerie: il pisco vale davvero un Perù, e farà strada non solo nei vostri cocktail.

Le sorelle Nonino col padre Benito in distilleria – (dal sito aziendale)
La grappa soffre purtroppo di opacità: il nostro distillato bandiera soggiace ancora oggi in patria ad un pregiudizio di mediocrità, e nulla fanno gli attori principali della filiera – le industrie – per risollevarne l’immagine investendo in qualità e trasparenza. E potrebbero, invece di ricorrere a materie prime modeste, a zuccheraggi spinti (peraltro permessi da un disciplinare ambiguo) e ad aromatizzazioni degne di rum dozzinali.
Ma chi tenta di alzare una scomoda voce contro il deplorevole stato di un distillato sì di umile origine, ma che lavorato con arte può competere con i più blasonati fratelli d’oltralpe, viene zittito: vendere conta più di distillare bene. Io non mi stanco, ed è solo per amore della grappa ben fatta.
Il distillato di vinaccia può riservare quindi facilmente cattive sorprese al cliente impreparato ed ignorante, senza sua colpa. Ma buona ed anche ottima grappa se ne trova sempre, a ben cercarla. Prima di tutto dagli artigiani distillatori in proprio.
Una piacevole conversazione durante la rassegna con la battagliera Antonella Nonino mi ha però rinfrancato parecchio. L’azienda che più di tutte tiene alto il buon nome dell’italica grappa nel mondo la pensa esattamente come me in tema di qualità e trasparenza. Quindi dai Nonino cadrete sempre in piedi: e lo capirete già assaggiando la loro grappa più semplice.
Non disdegnate però i veneti: i fratelli Brunello, distillatori di tradizione quasi bicentenaria in Montegalda, producono belle acquaviti del loro territorio e di altre origini, tra cui una rara “grappa di carmènere” dei colli Berici. Ma se cercate il colpo di fulmine del Vinitaly, i vulcanici trentini di Pojer & Sandri (ebbene sì, ancora loro) ve lo daranno con la loro “grappa Zero Infinito”, ricavata da vinacce di un vitigno ibrido e resistente a gelo e malattie, il solaris: il fruttato se ne esce in 3D, e lunghezza e volume nel calice sembrano davvero infiniti; zero trattamenti in vigna, quindi è pure bio. Volete altro? Chapeau, Mario!
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